La lotta all’eccesso e al lusso sembra essere, per la quantità di notizie al riguardo, uno dei grandi “fallimenti” della legislazione romana. Il risultato di questa lotta incessante – e infruttuosa – sono le leggi ricorrenti che, di volta in volta, tornavano alla ribalta per essere approvate prima, come accaduto con la precedente, di cadere nell’oblio. In questo articolo passeremo in rassegna brevemente l’enorme legislazione avvenuta durante la Repubblica. Ma prima di entrare nel vivo, bisogna ricordare che questa legislazione si limitava a stabilire le leggi valide per la città di Roma – e poi solo per l’Italia – e che, parafrasando una nota frase cinematografica, “quello che accade in provincia, resta in provincia". In questo modo gli usi e i costumi che si verificavano nelle città dell'Impero potevano essere molto disapprovati nella capitale, anche se venivano da loro attuati.
D’altro canto è conveniente commentare che, nonostante la permanenza di questa battaglia contro il lusso nel corso della storia romana, le motivazioni e gli argomenti a sostegno di essa sono cambiati nel corso degli anni. A volte le leggi cercavano di evitare che la ricchezza andasse perduta con atti spuri in un'economia, ricordiamo, come quella romana, che dipendeva totalmente dall'iniziativa privata per coprire le spese pubbliche. In altre occasioni le motivazioni erano più sentimentali – o almeno così si difendevano – come nel caso di Tito Livio che accusa Manlio Vulso di essere colpevole di aver portato il lusso e la raffinatezza dell'Oriente dopo le sue campagne contro i Galati da permettendo che i suoi stessi legionari portassero ogni tipo di oggetti e costumi sontuosi. Logicamente, questa importazione culturale rappresenta, per Tizio Livio, l'inizio della fine dell'austera e feroce cultura romana.
I combattimenti iniziarono presto e già a metà del V secolo a.C. Nel testo delle XII Tavole si possono contemplare divieti di eccessi, soprattutto in occasione dei funerali. I divieti vanno dalla limitazione del numero di veli da indossare, al numero di suonatori di flauto che potrebbero accompagnare il funerale o al divieto di gettare oro nella tomba (ad eccezione delle otturazioni del cadavere).
Non sappiamo quando esattamente, ma dall'inizio del III secolo a.C. C'era già una nuova legge contro il lusso. E lo sappiamo da notizie indirette; secondo Plutarco nel 275 a.C. Publio Cornelio Rufino, antenato di Cornelio Silla, assurto alla dignità di console e dittatore, fu espulso dal Senato per aver trasportato dieci libbre d'argento.
Dobbiamo aspettare fino al 215 a.C. quando, nel contesto della seconda guerra punica, troviamo un nuovo tentativo legislativo di porre fine agli eccessi, la Lex Oppia. Questa legge è abbastanza nota poiché l'obiettivo principale era quello di limitare l'ostentazione di ricchezza da parte delle donne, che erano limitate nella quantità di oro che potevano portare con sé, nei colori che potevano indossare nel vestirsi o negli spostamenti per Roma. Deve aver avuto un certo successo perché è uno dei pochi che gli stessi romani si preoccuparono di abrogare, cosa che fecero nel 195 a.C. con la fiera opposizione di Catone il Censore.
Tuttavia, la battaglia contro il lusso raggiunse ben presto una nuova pietra miliare, la Lex Orchia di Coenis, promulgata nel 184 a.C. che, davanti all'Oppia, attaccherà gli eccessi delle feste romane limitando il numero degli invitati che potranno partecipare a una cena. E sembra che questo sia stato il nuovo fronte dei legislatori romani, visto che lì sfileranno le successive leggi contro gli eccessi. Forse il timore dei legislatori romani era stato espresso da Sereno Samonicus quando, qualche tempo prima, aveva espresso il suo timore nei confronti di un giovane che beveva sempre di più e poi, ubriaco, dibatteva sullo stato della Repubblica (e quando si dice “dibatterlo” significa “Organizzano le trame. Comunque sia, alla lex Orchia seguirà la Lex Fannia Libaria (161 a.C.) che aggiungeva limitazioni sugli alimenti consumabili (ad esempio erano vietati gli “uccelli grassi spalmati del loro stesso grasso”) e soldi, il massimo che potrebbe essere speso per una cena. Aggiungeva inoltre, secondo alcune fonti, che coloro che erano interessati ad organizzare una cena privata dovevano giurare davanti ai consoli, con una formula specifica, che non avrebbero superato le spese consentite, che il vino sarebbe stato della campagna e che il le posate utilizzate non superavano un certo numero di determinate libbre d'argento.
Scena del banchetto. Museo Archeologico di Napoli.
La Lex Fannia dovette avere un certo successo perché nel 143 a.C. Il tribuno della plebe Titio Didius promulgò la cosiddetta Lex Didia Sumptuaria che allargò il campo di applicazione della legge a tutta l'Italia, oltre a punire non solo chi ospitava cene eccessive ma anche gli invitati. Ad essa seguì un'altra legge che dovette rispondere ad una situazione urgente poiché fu approvata dal Consulto Senato, la Lex Licinia de Sumptu Minuendo. Forse la rapidità che si cercava per la sua approvazione risponde alla mancanza della sua novità, poiché non sembra prevedere nuove limitazioni o divieti, limitandosi in pratica a ricordare la Lex Fannia che, col tempo, potrebbe essere “dimenticata”. Intorno a queste stesse date compare la Lex Aemilia Sumptuaria (115 a.C.), che proibiva alle cene nuovi alimenti come ghiri, molluschi e uccelli esotici.
La seguente legge contro il lusso viene niente meno che dal dittatore Cornelio Silla nell'anno 81 a.C. Sì, per un colpo di scena del miglior romanziere, quello che restituisce la dignità senatoria alla sua famiglia, promulga leggi come quella che espulse il suo antenato. La Lex Cornelia Sumptuaria non limitava lo sfarzo o la golosità, ma limitava piuttosto il prezzo del cibo che poteva essere consumato durante i banchetti, con un po' più di margine per i giorni speciali.
Ritornando alla "normalità" repubblicana, emerse la Lex Antia (71 a.C.), che manteneva la somma massima spendibile per un banchetto, ma aggiungeva il divieto di parteciparvi ai magistrati eletti e ai candidati - ad eccezione di quelli di alcune persone. Curiosamente lo stesso Macrobio elogiò la legge, ma il gusto del lusso la lasciò inutilizzata senza nemmeno preoccuparsi di abrogarla. Forse questa Lex Antia è quella che Cesare cercò di restaurare nel 46 a.C. e di cui Cicerone ci parla.
Cesare, però, non solo cercò di salvare le leggi cadute in disuso, ma si affermò anche come colui che aveva il compito di garantire i buoni – e austeri – costumi romani, raggiungendo l’onore di essere Prefetto della morale (praefectus moribus). Un onore che, secondo Cicerone, prese talmente sul serio da rifiutarsi di lasciare la città per poterne seguire più da vicino l'adempimento. Cesare proibì l'uso di lettighe, abiti di porpora e perle, salvo eccezioni dovute all'età o alla posizione e in determinati giorni. Metteva anche guardie nei mercati per confiscare i cibi proibiti – che arrivavano misteriosamente sulla sua tavola.
Dopo l'assassinio di Cesare sembra che anche il Triumvirato abbia voluto dare il suo contributo nella lotta al lusso; Macrobio ci informa di una legge suntuaria ad opera di Marco Antonio, anche se lui stesso non le dà molta credibilità poiché non considerava il triumviro un uomo perbene. La prossima legge suntuaria sarà sotto il principato di Augusto, anche se si tratta più di un aggiornamento della Lex Antia che di una nuova legge. Durante l'Impero la lotta contro gli eccessi continuò, anche se le tattiche utilizzate cambiarono sostanzialmente. In un altro articolo parleremo di questa evoluzione.
Immagine in alto: Donna con scrigno di perle in un affresco rinvenuto a Pompei
BIBLIOGRAFIA
- Coudry, Marianne. Lois somptuaires et comportement économique des élites de la Rome républicaine.
- Aulo Gellio. Notti in soffitta.
- Dione Cassio. Storia romana.
- Tito Livio. Ab urbe condita.
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